Uno spirito riformista
di GIUSEPPE D'AVANZO
LE QUESTIONI sollevate da Gianfranco Fini per una riforma della giustizia, pur "senza avere alcuna pretesa di organicità", possono essere condivise o meno, ma mutano radicalmente la qualità del dibattito politico. È soltanto clowneria il tentativo di Berlusconi e del suo segretario-ministro di giustizia di cancellare le differenze tra le aggressive intenzioni più volte espresse dal governo e le sollecitazioni del presidente della Camera.
Se si confrontano gli argomenti di Fini con gli annunci recenti o recentissimi (per non dire di quelli tradizionali) di Berlusconi, le difformità sono indiscutibili. Fini, come Napolitano, chiede una riforma condivisa che sia il risultato di "un ampio confronto tra le forze politiche e tutti gli operatori del settore".
Berlusconi, appena un mese fa, con disprezzo fece sapere che con "questa opposizione non si sarebbe mai seduto allo stesso tavolo". Avrebbe tirato diritto per la sua strada senza rinunciare allo strappo di una riforma della Costituzione a maggioranza. Fini ripete: i reati che consentono intercettazioni telefoniche non possono escludere la corruzione ("Si getterebbe discredito sulla politica devastante per la democrazia parlamentare").
Berlusconi minimizza il contrasto. Finge di non capire. Ricorda che i reati contro la pubblica amministrazione ammettono l'ascolto telefonico, ma dimentica di dire che se ci sono nel disegno di legge le intercettazioni per la corruzione lo si deve alla volontà ostinata della Lega che il premier ha dovuto subire in attesa che i suoi affossino la deroga in Parlamento.
Nel lungo sermone di fine anno, Berlusconi ha anticipato quel che ci sarà scritto nella riforma del governo a cominciare dalle prerogative che i magistrati dell'accusa avrebbero perduto. Per il premier, i pubblici ministeri devono scordarsi le indagini. Diventeranno lavoro esclusivo delle polizie subalterne al ministro dell'Interno, quindi affar suo che governa in nome del popolo. I pubblici ministeri, ha promesso Berlusconi, diventeranno soltanto "avvocati della difesa". Andranno in aula "con il cappello in mano" davanti al giudice a rappresentare come notai le ragioni del poliziotto. Dunque, del governo.
Fini, al contrario, ha voluto ribadire l'intangibilità di tre precetti costituzionali di cui il capo del governo si libererebbe volentieri: l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 della Costituzione); l'indipendenza della magistratura da qualsiasi altro potere (art. 104); l'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112). E tuttavia oltre al merito delle questioni proposte dal presidente della Camera appare altrettanto rilevante il metodo che egli indica alla platea politica.
Guardate, sostiene Fini, alle patologie del sistema giudiziario nell'interesse del cittadino e non a un riequilibrio dei poteri. Il cittadino ha diritto a una giustizia che sia servizio; servizio giusto, imparziale, efficiente, ragionevolmente rapido. Deve essere questa la "stella polare" di ogni iniziativa di riforma. È un punto fermo, una direzione politica, una priorità istituzionale che isola e prende le distanze dai passi del governo che, esplicitamente con le parole di Berlusconi, esige di ridurre in un comando ad una sola dimensione, a potere unico libero da ogni controllo di legalità, la legittimità conferitagli dal voto popolare.
Lo spirito di vendetta di Berlusconi scolorisce allora nelle parole di Fini in uno spirito riformista che vuole correggere il sistema nell'interesse collettivo e non a vantaggio di un potere che pretende di essere esclusivo. È una mossa molto istituzionale che può rimuovere finalmente il macigno della sfiducia reciproca tra chi deve fare le leggi e chi deve tutelare i diritti. Finito nel vicolo cieco e minaccioso delle prove di forza, il discorso sulla giustizia può forse ritornare ora all'aria aperta, se si farà tesoro dell'iniziativa del presidente della Camera. È un'occasione preziosa per una legislatura che si è aperta sotto lune nere (l'immunità del premier) e pessimi auspici (la spada di una riforma costituzionale non condivisa e nemmeno discussa).
L'interesse dell'associazione nazionale magistrati è un buon inizio, se riuscirà a fare i conti con le trappole di un "correntismo" ormai fuori della storia. L'attenzione di Veltroni è una conferma, se il Partito democratico sarà capace di darsi un orizzonte strategico e non si farà imprigionare dal tatticismo di giornata o, peggio, da nuove tentazioni e compromessi "bicamerali". È inutile nascondersi che sulla prudente fiducia di queste ore pesa l'appetito di un Berlusconi in corsa verso il Colle, dove vuole sedere padrone di una Signoria tecnocratica-populistica, e una magistratura di scopo (e non delle regole) che lucra utili di consenso dai problemi e non dalle soluzioni.
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